Francesca Carbone
Antropologa
Considerazioni di un'antropologa alle prime armi
Cercare e ricercare sono azioni insite nella natura dell’uomo e un ricercatore impara col tempo ad affinare le proprie tecniche di indagine. Esistono ambiti, come quello dell’antropologia, in cui appare molto complicato dettare una metodologia di ricerca standard che possa esser applicata indifferentemente ad ogni situazione osservata. L’antropologo, fin dal momento in cui si autodefinisce tale, scopre il rischio e la soddisfazione del fare da sé. Tuttavia non tutto è improvvisazione e non sempre ci si può affidare solamente al proprio intuito; fortunatamente esistono delle linee guida e delle regole, apprese grazie alle esperienze dei grandi esploratori del passato, che possono essere assunte come presupposti di ogni ricerca antropologica. Date queste premesse si può parlare, dunque, di un approccio antropologico alla ricerca.
In occasione delle mia tesi di laurea triennale, ho scelto di avvicinarmi per la prima volta allo studio sul campo di una comunità di migranti senegalesi a Torino e l’ho fatto seguendo un approccio di tipo antropologico. La prima fase di ricerca ha richiesto un dispendio consistente di tempo ed energie: ho tentato un’osservazione partecipante, pur nei limiti che l’inesperienza di un’aspirante antropologa può porre. Il contatto col campo, cioè con la comunità di Senegalesi, venditori abusivi in via Garibaldi, è stato innanzitutto un incontro: qualche parola scambiata inizialmente per caso e poi una progressiva e graduale conoscenza, favorita dalla mia costante presenza in strada. Con soddisfazione riconosco di esser riuscita ad ottenere un ruolo all’interno di quella comunità, per quanto marginale e limitato al periodo dei due mesi di osservazione.
A posteriori mi rendo conto che alcune decisioni sono state strategiche e hanno sicuramente favorito il proliferare delle relazioni. Una fra tutte la scelta degli strumenti per la raccolta delle informazioni: sebbene potesse facilitarmi nella fase di rielaborazione del materiale raccolto, ho fatto pochissimo uso del registratore e non ho mai utilizzato la telecamera o la macchina fotografica; non volendo insospettire i miei interlocutori con una presenza invasiva, ho preferito affidarmi alla semplicità della conversazione libera, stimolata con opportune domande e prendere gli appunti relativi a tali chiacchierate senza farmi notare. Nonostante avessi dichiarato fin dall’inizio le mie intenzioni e mi fossi presentata come studentessa, ho sempre cercato di pormi con rispettosa e discreta curiosità, anteponendo alla raccolta del materiale la conquista della fiducia dei miei interlocutori. Questo atteggiamento è risultato vincente e produttivo per la mia ricerca: ho avuto moto di frequentare l’abitazione di alcuni migranti, un ambiente molto intimo e di non facile accesso.
Se nella prime fasi un approccio antropologico richiede curiosità e istinto, ma anche pazienza e discrezione, le fasi successive della ricerca si caratterizzano per una particolare sensibilità e umiltà. L’osservatore cerca di lasciare il campo e di raccontare ciò che ha visto, senza la presunzione di un Ego narrante. Proprio perché l’osservatore diventa egli stesso parte del campo, questa fase è molto delicata e si presta a facili fraintendimenti. Nel momento di stesura della mia tesi, ho voluto che fossero i Senegalesi stessi a raccontarsi e dunque li ho presentati così come loro si sono mostrati a me. Da una parte, quindi, non ho la pretesa che la mia trattazione sia esaustiva, dato che ho affrontato solo alcuni aspetti della loro quotidianità, dall’altra mi rendo conto dei possibili equivoci che possono essere nati. Per questo motivo, sebbene mi pare superfluo sottolinearlo, è bene tenere a mente una delle premesse più importanti della ricerca antropologica: dato che lo studioso “scende in campo”, egli diventa parte del campo e lo influenza, così come è evidente che da esso viene influenzato. Ogni risultato della ricerca va letto alle luce di questa basilare considerazione.
Il campo della mia ricerca è stato via Garibaldi, una via di passeggio torinese, molto frequentata sia dai locali che da numerosi turisti. Questa strada è lo spazio di cui i migranti senegalesi si sono appropriati, conquistandolo. E’ lì che ogni giorno loro espongono la loro merce e ne diventano i mercanti; è sui bordi di quella via che questi marginali acquistano visibilità. Poco distante da via Garibaldi c’è il quartiere di Porta Palazzo, una zona caratterizzata da una colorata presenza di comunità di migranti e sede del più grande mercato all’aperto d’Europa. Nonostante non sia il loro luogo di lavoro, i modou modou – come si autodefiniscono i Senegalesi murid - conoscono bene quello spazio, in quanto luogo di scambio e di proficue relazioni sociali. Richiamando i concetti di focolare, soglia e frontiera, gli ambienti quotidiani del migrante sono: via Garibaldi, la frontiera, la zona di incontro e confronto con l’Altro, quello più estraneo da sé; Porta Palazzo, la soglia, il primo luogo non intimo nel quale nascono relazioni interessanti soprattutto tra connazionali; la casa, il focolare, il posto sicuro e accogliente in cui la communitas rivela se stessa. Questi sono i tre spazi, i tre palcoscenici sui quali il modou modou presenta se stesso.
E’ interessante notare la propensione del migrante a parlare di sé, delle proprie tradizioni e valori. I modou modou coi quali sono entrata in contatto sono stati sempre ben disposti a raccontarmi della propria famiglia, mogli e figli, rivelando a volte anche dettagli delicati e piuttosto intimi. Dalle varie conversazioni sono emersi più o meno sempre gli stessi aspetti: la devozione per un lavoro dignitoso e onesto, la fede in Allah e in serign Tuba, il sacrificio verso la propria famiglia, il rispetto per i genitori e per l’anziano. Tutti questi aspetti vanno a costituire quella che qualcuno ha definito la “retorica del buon Senegalese”. In particolare, si potrebbe parlare di “retorica del buon modou modou”. Tutti gli attori di via Garibaldi, infatti, appartengono alla confraternita sufi della muridiya, nata per volere del grande sceikh Ahmadou Bamba. La fede religiosa influenza profondamente la loro quotidianità, a partire da una particolare concezione del lavoro, che diventa strumento dell’uomo per raggiungere il divino; di qui si spiega l’interesse e il sacrificio coi quali ogni giorno i venditori si dedicano al proprio mestiere. Un altro aspetto condizionato dal loro essere murid è il sentimento sempre vivo del ritorno: il modou modou sa che prima o poi in Senegal tornerà. Questa prospettiva futura fa vivere al migrante una costante tensione tra ciò che era e ciò che sta diventando. La trasformazione, l’adattamento alla comunità ospitante, vengono vissuti come un tradimento nei confronti del proprio Paese e per questo vanno evitati. In questo modo si spiega la convinzione con la quale il Senegalese parla di sé: raccontarsi e ricordare le proprie tradizioni, giustificandole e avvalorandole agli occhi dell’Altro, in opposizione alle abitudini di altre comunità di stranieri, è una forma di autodifesa, un modo per rispondere al graduale adeguamento dal quale il migrante si sente minacciato.
Il modou modou vuole ritornare un giorno nel proprio Paese; per questo non progetta ricongiungimenti familiari e non investe nel Paese d’emigrazione. Il migrante senegalese non parte sempre per necessità, ma spesso è mosso da una naturale curiosità, una sete di conoscenza e di avventura che sono tipiche della natura umana. Il modou modou è Ulisse che lascia Itaca e sulla sua isola vuole tornare. Durante il viaggio sfida se stesso e viene sfidato, incontra sirene, maghe e Ciclopi, scopre e conosce e torna in patria arricchito. Emerge così una nuova concezione della migrazione: il modou modou prima che immigrato, è viaggiatore.
Si tratta di conclusioni limitate alla piccola comunità osservata, senza alcuna pretesa di generalizzazione. Eppure riconosco che solo grazie ad un intervento di questo tipo, in prima persona, fatto di incontri, parole e sguardi, si possa dire di aver tentato almeno un iniziale avvicinamento all’Altro. Scegliere poi di fermarsi all’osservazione o trovare un utile seguito alle proprie note di campo è una decisione che spetta al singolo. Il mio desiderio è che i risultati di ogni ricerca diventino la base su cui si fondano le scelte concrete della politica.
2 agosto 2011.