"Vous avez les heures, nous avons le temps"
- Francesca Carbone
- Jan 23, 2018
- 3 min read

Già.
Il tempo delle relazioni, dell'attesa, dello stare senza fare. Quello di chi non è cresciuto con l'idea che esso sia denaro. Il tempo dei saluti: "Ciao, come va? come sta la famiglia? come va il lavoro? come va la giornata?" e viceversa e poi si ricomincia "ma quindi, come va?" e via avanti per un po', anche fra colleghi che si incontrano ogni giorno. Anche con gli amici nelle chat di whatsapp. Anche con il tassista prima di salire in auto e indicargli la direzione, tanto il pagamento non avviene in base ai minuti. Il tassametro non esiste, il prezzo si negozia. L'attesa è un'arte che sto imparando facendo esercizio di grande pazienza; proprio io che non sopporto aspettare e perciò arrivo in ritardo agli appuntamenti. Il tempo del negoziante che non sente alcuna pressione nel servire il cliente: si alza con calma, ogni movimento è lento, nessun gesto che rispecchi il nervoso che sento crescere dentro quando sono di fretta. Ho imparato che non si possono fare acquisti all'ultimo minuto, in particolare se ho bisogno di fattura. Devo tener conto del tempo che ci vuole per cambiare i soldi per avere il resto, per stampare una ricevuta, compilarla a mano e fare il totale con la calcolatrice. E poi aspettare che qualcuno imbusti i miei acquisti uno per uno, che a volte scelgo di non aver bisogno del sacchetto solo per evitare anche questo passaggio. Il tempo del viaggio. Non sai mai quando parti (e nemmeno se arrivi, in realtà): il "7 places" è il mezzo più economico per gli spostamenti fuori città e quindi il più comune. E' un'auto che può caricare fino a sette passeggeri, ma niente a che vedere con le nostre monovolume. Si sta belli pressati, tre accartocciati nei sedili in fondo (le matrone ovviamente non ci entrano e quindi ci finiscono di solito i più compatti), tre comodi nei sedili centrali e uno davanti. Caricare così tante persone su un mezzo, che in salita corre meno di un carretto con asino, richiede tempo. E quindi mi ritrovo seduta rigorosamente in fondo ad aspettare per intere mezzore che arrivi il sesto e poi il settimo passeggero. Una gocciolina di sudore scende lungo la schiena anche se non fa per niente caldo. Più minuti passo in quel veicolo, più ho tempo di apprezzare gli squarci nella carrozzeria, le maniglie delle portiere rotte dall'interno, i buchi sul pavimento che si vede la strada. Allora mi dimentico dell'attesa e mi ricordo che forse c'è un Dio e che allora è il caso di pregare. Una buona strategia per passare il tempo. E poi le ore di viaggio, combattuta tra il darmi una botta in testa e addormentarmi perché "occhio non vede e ansia non sale" o se distrarmi cercando i babbuini sui baobab e i dromedari sul ciglio della strada. Di solito succede che quando vedo questi animali penso di stare sognando. "Vous avez les heures, nous avons le temps", mi dice Ibou. Stiamo prendendo un thé tra amici. Bere l'attaya è un rito, un condensato di quello che vuol dire avere il Tempo. Siamo seduti per terra, al centro il braciere con i carboni ardenti e la teiera con l'acqua e le foglie di thè. Si lascia bollire il tutto per un tempo imprecisato. Poi si versa il contenuto nei bicchierini e si travasa varie volte così si forma la schiuma. Si beve il primo giro e si rimette la teiera sul braciere. Si chiacchiera. Il secondo giro di thè è più forte, il terzo più dolce. Tra il primo e il terzo possono passare anche diverse ore, ma quello che conta è il tempo che ci si prende. Ibou ci sta raccontando della difficoltà di essere sul posto di lavoro alle 8.00 puntuale. Lavora come tecnico per l'Institut français e il suo datore di lavoro è un francese arrivato in Senegal da appena due mesi. "Lui non ha ancora capito come funziona il tempo qui". Nemmeno io in realtà, ma mi piacerebbe.
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