Volevo raccontarvi del mio silenzio delle ultime settimane
- Francesca Carbone
- Feb 15, 2018
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Di come sia turbata dalle vicende in cui l’Italia è avvicendata, dalle elezioni alla penombra in cui stiamo scivolando che forse è già buio, nero. Troppi stimoli da là, troppi qui. Volevo raccontarvi anche di un giochetto che mi capita di fare ultimamente, un esercizio di decentramento in cui osservo cosa vuol dire essere straniera nella terra di chi è straniero a casa mia. Mi è capitato di pensarci per la prima volta quando mi sono resa conto di dover regolarizzare la mia posizione in Senegal e richiedere il permesso di soggiorno: sette documenti da presentare alla Police des étrangers (la prima volta che sono stata definita « straniera » e, guarda caso, da chi si occupa di ordine e sicurezza). Poco tempo a disposizione, mia ignoranza delle procedure anche solo per richiedere un certificato medico e in un attimo ho sentito crescere in me la stessa preoccupazione che ritrovavo nei nostri migranti. Ma per fortuna per me c’era Bouba, il mio collega, disponibile a telefonare al suo amico in ospedale per accelerare il rilascio del certificato. Ed Christine che in una mattinata ha mobilitato i contatti della sua cerchia di amici cristiani per essere ricevuti presto in Comune e dalla Polizia. E anche la funzionaria in ambasciata, che ha vissuto la sua infanzia da immigrata a Udine (!) e neanche dire come ha applicato l’opzione di urgenza richiesta per la nostra pratica. Così in due settimane già non ero più straniera. In realtà straniera non lo sono mai stata. Potrei dire ospite. Mi sento ospite quando i tassisti dopo due mesi ancora mi danno il benvenuto nel Paese o quando litigo per lavare i piatti dopo pranzo dalla famiglia che mi ha adottata: la madre mi invita sempre ad andare a riposare preoccupata per la mia tenuta fisica. Si sa che i toubab sono più deboli in Africa. Mi sento ospite quando la mia amica Coumba si preoccupa che io abbia tutte le informazioni sui prodotti per la cura personale, l’abbigliamento e tutto quello che riguarda l’universo femminile qua in Senegal. O quando mi dà i consigli di vita per diventare una vera yay fall. O quando vado in giro per i quartieri con il mio collega Bouba e lui mi trattiene quando dobbiamo attraversare la strada, nemmeno fossi sua figlia di sette anni. O quando mi invita al battesimo del nipote, al matrimonio dell’amica, alla cerimonia religiosa pur sapendo che non ho un Dio. Mi sento ospite anche quando scambio due parole con gli sconosciuti, che se le parole diventano quattro già vogliono attribuirti un nome senegalese. Il fatto di donare un nome senegalese ad un toubab è per me il gesto di ospitalità più grande. Un modo per dire che fai parte della famiglia. Anche io ne ho uno, dal quarto giorno in cui sono arrivata. Volevo raccontarvi di come sia difficile conciliare queste sensazioni con l’amarezza e la vergogna che montano quando penso a come, invece, noi ci stiamo abituando a trattare gli ospiti in arrivo in Italia. E comprendo meglio lo stupore dei ragazzi africani che sbarcano in Sicilia quando si confrontano con le prime esperienze di razzismo. E mi mancano le parole, anche se vorrei urlare. Ma forse è meglio lasciare questi pensieri nell’aria e raccontarvi del mio primo giorno di palestra a Saint-Louis ! Al telefono mi dicono che il corso di aerobica inizia alle 19 e alle 20. Scelgo di andare al primo dei due e arrivo un quarto d’ora in anticipo, siccome è la prima volta. Mi si presenta subito l’allenatore, un ometto super palestrato e più basso di me. Sembrava proprio un orango, se me lo permettete. Mi dice che il corso inizia tra le 19 e le 20 e io mi rendo conto di non aver capito di nuovo nulla del tempo in Africa. Mi invita nell’attesa a fare un po’ di riscaldamento, mi fa salire sul tapis roulant e lo accende. Dieci minuti, venti minuti. Alla mezzora sono già esausta e nessun cenno che la lezione inizi. Non mollo, guardo allo specchio la porta dietro di me. E finalmente le vedo, un gruppo di donnone in tenuta da fitness fa il suo ingresso in palestra. Ci sistemiamo sparpagliate nella sala al primo piano. Musica a palla, pesetti Decathlon e tappetino. Il maestro davanti, gli specchi tutti attorno. E niente...penso di aver fatto più addominali in quell’ora che in tutta la mia vita ! Avevo mal di pancia dal troppo ridere. Le donnone ballavano a ritmo di musica, ciascuna per conto suo, qualcuna a occhi chiusi. Nessuna seguiva il maestro che si dimenava sculettando. Ad un certo punto salta pure la corrente. Tutto buio, niente più musica. Solo le donnone che continuavano a ballare, il maestro a sculettare e io a ridere. Decido che sì, voglio fare l’abbonamento mensile in palestra e me ne convinco definitivamente a fine lezione, quando mi ritrovo in spogliatoio mentre le matrone si ricompongono nei loro ingombranti vestiti. Amina Mbeng
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