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Fulla mooy wutti, waaye fayda mooy gnibbisi

  • Writer: Francesca Carbone
    Francesca Carbone
  • Jun 29, 2018
  • 6 min read


Era un giorno di marzo del 2011 quando ho conosciuto Moustafà. Vendeva poster in via Garibaldi a Torino. Io ero nuova in quella città e passeggiavo in cerca di un « accesso al terreno », che è una fase molto importante della ricerca per un antropologo, quella in cui si entra in contatto con l’ambiente che si vuole studiare. É stato Moustafà ad aprirmi le porte di quello che sarebbe stato poi il mio campo di studi per gli anni a seguire : l’economia informale nelle migrazioni.

« Ciao Francesca ! » mi chiama. Si ricordava il mio nome dal giorno prima, io no. Da quel momento, per i successivi tre mesi, Moustafà sarebbe diventato il mio interlocutore privilegiato, il narratore in prima persona di un mondo che piano piano avrei imparato a conoscere.


Moustafà è un modou modou, un senegalese murid in Italia. La muriddiyya è una delle confraternite sufi che caratterizzano l’Islam senegalese, una specie di “setta” per capirci, fondata dal grande Cheik Ahmadou Bamba Mbacké, Serign Touba, negli ultimi anni dell’800. Moustafà mi raccontava di Ahmadou Bamba, delle sue gesta durante gli anni della colonizzazione francese che gli sono costati l’esilio in Gabon e poi in Mauritania, di Touba la città santa e della grande moschea dove è seppellito il suo corpo. Mi parlava dei suoi precetti e dell’etica del lavoro, ancora più importante dell’apprendimento coranico, dei bay Fall, i seguaci del primo discepolo di Ahmadou Bamba, Ibrahima Fall. Mi parlava di sé, del suo viaggio e del suo commercio, partito dal Senegal per farvi un giorno ritorno, la sua Itaca. Mi raccontava della sua famiglia, delle due mogli, del figlio di quasi due anni ancora mai visto dal vivo. All’epoca Moustafà non poteva più tornare in Senegal perché aveva perso il permesso di soggiorno per una sciocchezza. Ma un giorno o l’altro sarebbe tornato a casa diceva, in Italia ormai la vita era diventata troppo dura.


E così due anni e mezzo fa Moustafà è tornato a Djourbel, dalla sua famiglia. Me l’ha raccontato suo fratello Fallou che ho incontrato a novembre scorso per caso a Torino. Ecco perché non riuscivo più a mettermi in contatto con lui! Me l’ha confermato Moustafà stesso sabato scorso, quando sono andata a trovarlo a casa sua, qua in Senegal. Finalmente!


Sulla strada per Djourbel, una sosta nella città santa.


Il viaggio che mi ha portato da Moustafà è stato breve, il Senegal non è poi così esteso. Avevo sentito parlare di Touba talmente tanto che quando sono arrivata là, mi sembrava di esserci già stata: il caldo torrido, gli spostamenti in carretti con asini e cavalli, la gente ancora poco abituata ad incontrare dei toubab e la grande moschea. Forse non più bella di altre, ma sicuramente ammantata di spiritualità e di storia, arricchita di volta in volta con dettagli dalle persone che incontravo. A Touba sono stata ospite di un grande marabout, cheik Moustafà Mbacké, un diretto nipote di Ahmadou Bamba. Se nasci Mbacké, vuol dire che sei uno dei discendenti di Serigne Touba e ti spetta pertanto del rispetto. Anche se sei un bambino di solo un anno, o due o tre, e ancora non capisci perché le persone si inginocchiano davanti a te per salutarti. Nonostante i 40 gradi all’ombra, portavo un velo e le maniche lunghe, ma forse è stato meglio così, altrimenti un’ustione o un’insolazione sarebbero stati assicurati. E comunque questo è il codice d’abbigliamento per entrare nella casa del marabout. Di venerdì. In concomitanza di una festa religiosa. Insomma l’occasione ideale per sentirmi, per la prima volta da quando sono qua, veramente a disagio.


Appena ho messo piede nell’anticamera della casa del marabout, improvvisamente mi è sembrato di aver perso ogni punto di riferimento. Sapevo del senso del velo sulla testa e dell’eventualità che qualche uomo avrebbe scelto di non stringermi la mano, in quanto donna. Ma per il resto si è trattato delle tre ore più interessanti e spaesanti degli ultimi tempi, osservatrice e osservata dall’angolino di comfort che infine ero riuscita a ritagliarmi. Solo uomini seduti sulle stuoie di plastica per terra. Anche i più anziani, quelli col bastone, sedevano per terra, nonostante ci fossero dei comodi materassi. “Bisogna stare il più vicino possibile al terreno, in forma di rispetto per il marabout”. E comunque a questo si aggiunge la naturale predisposizione di queste persone - bambini, adulti, anziani - al contatto con il suolo, l’agilità con cui si accoccolano sul cemento duro e la facilità con cui si alzano e si siedono senza poggiare le mani per terra. È da un po’ che li osservo con ammirazione. Siedo anche io per terra tutta accoccolata perché i piedi non escano da sotto la gonna (sono così bianchi!).

E sto. E stiamo là così per ore.

Ogni tanto gli uomini si scambiano qualche parola, addirittura litigano per chi sia il più vicino, in termini di parentela, al marabout. Apparentemente tutti in attesa del marabout, in realtà a intessere relazioni e a confermare posizioni e autorità. I figli del marabout ci vengono a salutare perché conoscono la mia guida. Mi viene l’istinto di alzarmi in piedi, per rispetto, ma poi mi ricordo e mi faccio piccola piccola per terra e guardo in basso. “Non bisogna guardare negli occhi le persone a cui porti rispetto”. Non ci si alza in piedi, non si guarda negli occhi, in questo mondo all’incontrario. Comincio a voler sapere il perché di tutto. Come si sceglie il posto dove sedersi nell’anticamera, come fanno tutti questi uomini vestiti uguali nei loro ingombranti bubu a sapere a chi dover portar rispetto, chi è Mbacké e chi no, quante volte si viene in visita dal marabout e di cosa si parla con lui. E penso che io ho la fortuna di avere una guida che mi spiega tutte queste cose. E mi tornano in mente i ragazzi che sbarcano in Sicilia e tutte le domande, così ovvie per noi, che ci facevano.


E poi arriva il marabout che, con mia sorpresa (forse il caldo, forse la fascinazione?), è una persona normale: due gambe, due braccia, un grande bubu grigio scuro, un cappello di lana in testa e gli occhiali. E in verità nemmeno anziano, forse l’età di mio padre. Ci dice di avvicinarci e gattoniamo fino a lui, seduto su una sedia a sdraio. Parla un po’ in wolof con la mia guida, io continuo a guardargli i piedi e mi farò tradurre poi. Dice una preghiera per noi, “amine”. Siamo i benvenuti. E ci spostiamo a mangiare nella stanza accanto con i suoi figli, che per fortuna avranno la mia età. E ci sono anche delle giovani donne Mbacké. Sento finalmente di poter far uscire i piedi da sotto la gonna. Mangiamo con gusto, dei giovani ragazzi bay fall ci servono il pranzo.


Fulla mooy wutti, waaye fayda mooy gnibbisi

Quando arrivo a Djourbel mi sento svenire, forse il caldo, forse il cagotto, forse l’emozione di star per rivedere Moustafà, da cui tutto è cominciato. Lo vedo in lontananza nel suo abito a quadrettini da seguace di Ahmadou Bamba, ma mi sembra così dimagrito. In braccio un bambino piccolo, è suo figlio Serigne Touba di due anni e mezzo. Non ha perso tempo Moustafà! Ci accompagna a casa sua, stanno allestendo una festa religiosa in strada. “Lei è mia moglie Mamediarra, come la mamma di Serigne Touba, e loro sono i miei figli”. “Lui non lo vedevo da otto anni, otto anni! E adesso mi sta sempre appiccicato”. “L’altra moglie è a Dakar. É incinta, ma siccome ha perso già due bambini allora la faccio stare là tranquilla da sua sorella e dico a tutti che è malata, che ha male alle gambe”. Lascio perdere il discorso, dell’andamento della gravidanza è meglio non parlare e nemmeno dei primi mesi di vita del bambino. Il rischio è di incappare in malocchi e malelingue. Moustafà mi parla in italiano, mi porta a fare il giro dell’isolato, mi presenta ad un po’ di persone come la sua amica italiana, “sama xarit italienne”. É contento e io di più, nel mio vestito azzurro sgargiante a fiori rosa e verdi, un regalo che la sua prima moglie mi aveva fatto recapitare in Italia 7 anni fa. “Ma Moustafà, come stai?”. Lo vedo così nervoso: non resta più di tre minuti seduto nello stesso posto, sgrida in continuazione i talibés che entrano in casa, dispensa ordini un po’ a tutti. “Ora io non posso ballare più, sono il capofamiglia”. In realtà Moustafà è stato sempre un po’ insofferente, in Italia pativa troppo la lontananza da casa, dalle mogli, dal Senegal e ora, dopo 30 anni di emigrazione, non è facile tornare. La famosa doppia assenza.


"Fulla mooy wutti, waaye fayda mooy gnibbisi"

“E’ il carattere che ti porta ad andare alla ricerca, però è il coraggio che ti farà ritornare”.


 
 
 

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